Aurum Tolosanum, Le Mezzelane casa editrice. Recensione

Una miscellanea di leggende, superstizione e fatti storici realmente accaduti è il fondamento di questo racconto dedicato al furto dell’oro consacrato al Dio Apollo nel Santuario di Delfi.
Il tesoro, già al tempo dei greci e dei romani, era avvolto da cupe leggende e racconti di sventura. Una tradizione cui l’Autore attinge per imbastire la sua trama.
Il Dio traghettatore del Sole, protettore delle arti e della divinazione, è anche implacabile nel disseminare pestilenze e sventure tra chi osa arrecargli offesa: lo sanno bene i Cimbri che, spinti dall’avidità, profanano il tempio di Delfi e la sua sacerdotessa, la Pizia, appropriandosi dell’ingente quantità d’oro consacrata al Dio.
Il misfatto provocherà la morte del loro condottiero, Brenno, della sua regina guerriera e la rovina dei loro figli.
Qualche decennio dopo, lo stesso tesoro determinerà una delle più umilianti sconfitte subite dai Romani: quella di Arausio e la rovina di Quinto Servio Cepionide che, accecato dal prezioso metallo, tradirà Roma e, per questo, morirà pazzo, in esilio.
Non hanno migliore destino i suoi discendenti e tutti coloro che, in varia misura, vengono a contatto con l’oro del Dio e se ne appropriano, in una linea di maledizione che arriverà fino al traditore Bruto, anch’egli progenie di Cepionide.
La storia in sé ha un grosso potenziale, derivante dalla centralità di un topos letterario ricorrente: il tesoro maledetto (anche di “piratesca” memoria), che apporta più danni che benefici a chi se ne appropria contro il volere del primo possessore o di chi ne ha la custodia.
Credo sia facile anche notare l’intento didascalico di un simile espediente: è pericoloso lasciarsi accecare dall’avidità o dal desiderio di appropriarsi di ciò che non ci appartiene, spesso anche con la violenza.
In questo caso l’Autore è supportato dal materiale - mitologico e storico - messo a disposizione dagli antichi, di cui dimostra un’ottima conoscenza. Lo si deduce dall’attento rimando alle fonti e dall’utilizzo di un lessico specifico, a tratti tecnico, nella descrizione sia della “parte ellenica” che di quella “romana”.
Lo stile di scrittura risulta lineare, pulito: poche ipotassi a bloccare l’andamento scorrevole delle frasi. Il gergo dei personaggi è impreziosito da qualche massima in latino. In alcuni casi i dialoghi mi sono sembrati un po’ forzati, senza un punto cardine che ne reggesse l’impianto complessivo.
Purtroppo, quest’ultimo giudizio si estende un po’ all’intero libro: la storia scorre bene, ma manca un guizzo di pathos, un elemento stravolgente, qualcosa che interrompa la placidità della narrazione.
Forse per questo motivo l’ho percepito come un buon esercizio di erudizione, certo non spiacevole, senza però riuscire a trovare quel “quid” in più: una verve di sottofondo che mi emozionasse.
Rimandato.



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