Galatea, Sonzogno editore. Recensione

Quando tutto è marketing, il marketing è tutto (semi-cit).
Quando sono entrato in libreria per acquistare l’ultimo libro della Miller non mi aspettavo certo un libricino striminzito di ottanta pagine, riempito più da illustrazioni che da parole.
Sono rimasto deluso. Sembra che quando un Autore raggiunge la fama, si giochi un po’ troppo sul suo nome e meno sui contenuti che produce (di qualità o meno che siano). E certo non condanno la brevità in sé, ma il polverone che ha ingigantito la portata dell’opera sfruttando la scia dei successi precedenti.
Piccola polemica a parte, ecco la mia recensione (scevra dalla rabbia iniziale):

In poche battute - contornate e, talvolta, sovrastate dalle illustrazioni in chiaro scuro di Ambra Garlaschelli - Madeline Miller ci narra di una Galatea inedita e contemporanea, forse sospesa tra fiaba e realtà. Nel mito cui il libro attinge, infatti, “Galatea” è il nome della statua resa viva da Afrodite su richiesta del suo creatore, Pigmalione, perdutamente innamorato della propria opera di marmo, perfetta e bellissima, con le fattezze di una dea.

La Galatea di Madeline Miller, invece, è sì pallida e marmorea, ma non si riesce a comprendere se ciò sia dovuto alla sua metamorfosi, alla malattia che sembra attanagliarla oppure alle vessazioni cui è sottoposta. È una statua? È una donna? È fatta di pietra o di carne? Le descrizioni sono volutamente ambigue. È perfetta e bellissima certo, ma queste caratteristiche divengono la sua condanna: il marito (Pigmalione? Non lo sappiamo, l’Autrice non pronuncia mai il suo nome) l’ha rinchiusa in una clinica per evitare che tentasse di nuovo di fuggire, per impedire che altri potessero ammirarla. L’amore per la propria opera diviene ossessione e voglia di possesso esclusivo. L’affetto del mito si trasforma qui in un rapporto fatto ormai solo di violenza e meccanici rapporti sessuali. Il creatore diventa padrone crudele, infastidito da qualsiasi crepa d’imperfezione macchi la sua creatura (in una scena molto suggestiva sono descritte le smagliature prodottesi sul ventre di Galatea per via della gravidanza. Il marito dichiara “Se fossi di pietra, li eliminerei a colpi di cesello”).

Stanca di essere rinchiusa e desiderosa di rivedere la figlia, Pafo, Galatea riesce a sfuggire alla clinica e a compiere un atto definitivo. Anche qui la parola d’ordine è ambiguità: è un’eroina che si ribella al giogo? È spinta dalla forza della disperazione? Di certo, l’autodeterminazione e l’amore per la figlia la inducono a compiere, finalmente, una scelta.
L’opera è costruita sul non detto: l’Autrice dà qualche sporadica pennellata qua e là, lasciando al lettore l’onere di individuare e ricostruire l’immagine sulla tela.
Le vicende si susseguono velocemente, spesso con bruschi salti a scene successive senza apparente collegamento con le precedenti. Tutto è sospeso in un’atmosfera da sogno, fumosa, a volte interrotta da sprazzi di concretezza e rude violenza, tanto che non si comprende bene se si narrano eventi reali o incubi. In alcuni casi i vuoti sono colmati dalle illustrazioni che, come ho già detto, spesso sono così corpose da sovrastare la parola scritta. Probabilmente si tratta di peculiarità legate anche alla brevità del racconto.
Ciò che è certo è che abbiamo tra le mani la storia di una donna il cui nome è Galatea, ma che potrebbe portare un qualsiasi altro nome, perché è archetipo di situazioni vissute da molte. Ancora una volta, la storia di chi siamo o potremmo essere si annida nel mito antico, così universale da potervi leggere i messaggi più svariati, in ogni tempo.

Lo stile di scrittura è quello cui ci siamo abituati con le opere precedenti: sensibile, delicato conturbante.
I miei sentimenti nei confronti di questo libro sono come la sua formulazione: ambigui. Devo ancora capire se mi sia piaciuto nella sua singolarità o non l’abbia apprezzato appieno perché avevo altre aspettative, anche considerando i precedenti dell’Autrice.
In ogni caso, si legge in meno di mezz’ora, quindi lo consiglio anche agli scettici!



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