La città di vapore, Mondadori editore. Recensione.

L'ultimo libro di Càrlos Ruiz Zafòn. Dover scrivere questa frase è doloroso.
Da poco più di un anno ci ha lasciato uno scrittore unico, un maestro della narrazione e artefice di una serie, quella del "Cimitero dei libri dimenticati", conosciuta in tutto il mondo.
Autore di storie vere, affilate, che raccontano la sofferenza di una vita grigia, una vita che non fa che contrarsi senza dare respiro e corre via, lasciando disperazione e rimpianti dietro di sé.
A Zafòn devo molto, moltissimo del mio amore per la lettura. Il mio primo libro letto fu "L'ombra del vento", un romanzo che mi stregò per la complessità e la profondità delle emozioni che riuscì a far scaturire dentro di me (avevo circa dodici anni), come se fosse un libro trovato nel cimitero dei libri, non mi staccai più da quelle sensazioni che ancora oggi mi accompagnano.

"La città di vapore" è una raccolta di racconti, pubblicata postuma in Italia, in cui Zafòn ci regala le ultime perle, alcune collegate alla storia del cimitero dei libri e ai protagonisti che abbiamo imparato a conoscere a fondo nella tetralogia e altri in cui dà libero sfogo alla sua visione del mondo, sempre molto cupa e rassegnata. Non una rassegnazione fine a se stessa, nessun compatimento o vittimismo ma una desamina cruda e (dolorosamente) reale della vita e le sue difficoltà.
Un elenco dei vizi e delle paure umane, acceso dalla sua penna cosi sopraffina, capace di costruire immagini con poche e precise parole, immagini colme di bruma, nebbia e di odori che, nella maggior parte dei casi, sono fetidi e sanno di fiori morti e cimitero.

Fin dal primo racconto, dal primo rigo in realtà, del libro, si ritrova lo stile che lo ha caratterizzato e, portando a galla infanzie travagliate e verità taciute, ci trascina nella sua Barcellona. Una città gotica e oscura, trafitta dalla pioggia e dal cielo cupo in cui si muovono personaggi tetri e ambigui.
Vicoli e strettoie creano un dedalo soffocante dove le brave persone affogano nella melma lasciata dietro dagli arrivisti e dai ladri, dove un bambino senza amici si scopre scrittore e una madre si vede portare via il figlio appena nato o dove un padre vende la figlia per soddisfare la voglia di gioco d'azzardo.

C'è un qualcosa nei libri di Zafòn, un qualcosa che non sono mai riuscito a spiegarmi.
Non riesci solamente a leggere le sue storie ma sei costretto a sentirle tue e non parlo di immagini, nomi (quelli anche) ma di un senso di inquietudine che è agganciato a ogni parola e che si incaglia nella mente del lettore, come se dalle pagine emanasse tutta la sofferenza e l'emozione che l'autore ha impiegato per scriverle.
Non c'è un momento della lettura che sia vuoto o rallentato, il punto di vista dei protagonisti è totalizzante e ti ritrovi nelle loro vite, complicate, accidentate e reali. L'autore muove tutto sulla sua scacchiera (la Barcellona di cui parlavamo prima) e non ci sono re o regine ma solo pedoni, destinati a essere mangiati e tolti via, insignificanti e incolori.
Le trame complesse e intrecciate sono un altro punto di forza. I personaggi sono solo all'apparenza autonomi e ti ritrovi a collegare il terzo libro con il primo e i risvolti sono sempre degni di un grande sceneggiatore.

Forse sto divagando ma Zafòn è molto di più che i suoi romanzi e i suoi racconti, è un modo di scrivere unico e che non potrà avere eguali perché riusciva a trasportare tutto ciò che provava nei suoi scritti.

"E raccontò, perché nelle sue vene scorreva il vino della narrazione e il cielo aveva voluto che fosse una sua pratica raccontare prima a sé stesso le cose del mondo per poterle comprendere e poi raccontarle agli altri, vestite con la musica e la luce della letteratura, perché intuiva che se la vita non era un sogno era almeno una pantomima, dove la crudele assurdità del racconto fluiva sempre dietro le quinte, e non esisteva tra cielo e terra vendetta più grande e più efficace che scolpire la bellezza e l'ingegno a colpi di parole per scoprire il senso del nonsenso delle cose"

Qui, in questo passo che Zafòn ci regala in uno dei racconti, c'è molto di lui. Questo suo complesso rapporto con la sua abilità che tanta gioia ma che altrettanti dolori gli avrà causato. Questa sua capacità di vedere le cose per come erano davvero e raccontarle altrettanto fedelmente gli ha causato un conflitto notevole, tra lo scrittore che era in lui e quella parte che non ne vedeva la necessità.
Inoltre molte volte ha usato nei suoi romanzi, e nei racconti fa altrettanto, la "figura" del dolore come moneta di scambio per scrivere un romanzo degno di nota.
Forse quando ha scritto questi racconti conosceva già la sua condizione e il dolore era un pensiero costante ma sicuramente una sofferenza più intima ha perennemente guidato la sua penna, sospesa tra il tempo che passa e non lascia dietro niente che valga la pena voltarsi a vedere e la cattiveria umana che tanto potere ha dato alle sue pagine.

Tutto ciò per dire che è chiaro che questo libro sia un piccolo gioiellino ma lo sarà per chi sa cosa vuol dire leggere Zafòn, per chi si è perso nel labirinto del cimitero dei libri e vuole conoscerne la vera storia, per chi non ne sarebbe mai uscito e vorrebbe sapere di più sui suoi guardiani, sui Sempere e loro antenati.
Molto dovremo imaginarlo ma con questo ultimo regalo l'autore ci dà una mano notevole.
Un racconto in particolare narra la storia dell'autore di "Don Chisciotte", ed è un commiato degno di un grande.

Un'ultima cosa. Nella prefazione, l'editore spagnolo, ci spiega come sia da annoverare tra i grandi Zafòn perché, tra le altre cose, per spiegare i suoi libri e le sue idee si utilizza l'aggettivo "Zafoniano".
Personalmente molte cose sono Zafoniane ormai, come l'odore tipico dei libri e determinate canzoni.
Un artista in particolare mi fa sempre pensare a lui ed è Fabrizio De Andrè.
Sembra esserci un filo comune tra i due, la stessa visione del mondo realistica e disincantata e penso che Berto, figlio della lavandaia, che seppelliva sua madre in un cimitero di lavatrici, avvolta in un lenzuolo quasi come gli eroi mentre suggerisce a Dio di continuare a farsi i fatti suoi, sia un personaggio che lo stesso Zafòn avrebbe inserito volentieri tra le parti del porto di Barcellona.
I becchini che raccolgono spesso la gente che si lascia piovere addosso... qui vi sfido: Zafòn o De Andrè?

Quindi cosa dire, leggete Zafòn e nutritevi della sua scrittura.

"Ora aspettami fuori dal sogno, ci vedremo davvero, io ricomincio da capo." F. De Andrè.

Arrivederci maestro.



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